di Roberto Valentini
Elegante e dolcemente malinconico Woody Allen, a ottant’anni suonati, ancora rivive nei tormenti d’amore e nella ricerca di una felicità sempre più irraggiungibile. In Café Society c’è tutto il mondo alleniano già presente nella sua sterminata filmografia dove, con altalenante mestiere ha proposto al “ suo “ pubblico, più europeo che americano, con sottile ironia un’opprimente appartenenza ebraica, con madri noiose e padri sconfitti e rassegnati, sorelle borghesucce e fratelli imbroglioni Il tutto condito in salsa swing. La storia , infatti, si svolge negli Anni Trenta.
Il protagonista, Bobby ( Jesse Eisemberg, alter ego del regista ), dalla natia New York si trasferisce a Hollywood presso un ricco zio produttore cinematografico. Qui la graziosa segretaria dello zio Vonnie ( Kristen Stewart ) e del quale è anche l’amante segreta lo introduce nel mondo affascinante dei grandi divi del bianco e nero e della gigantesca macchina del cinema hollywudiano. Ma seppure innamorato di lei, disilluso e respinto, non si perde d’animo e ritorna a New York dove dirige un avviato locale Il Cafè Society e incontrerà un’altra donna che poi sposerà. Ma l’amore per Vonnie, che rincontrerà nel suo locale, resterà vivo ma sempre irrealizzabile. La presa di coscienza di un mondo lussuoso ma superficiale e la voglia di semplicità, assieme alla nostalgia per anni che non torneranno più, danno al film quel tono malinconico, grazie alla fotografia di Vittorio Storaro e al leit motiv sonoro più volte riproposto della romantica e dolcissima “Manhattan” eseguita al piano da Carmen Cavallaro, che lo ha fatto applaudire al Festival di Cannes e dal pubblico che lo ha premiato con buoni incassi in questo primo fine settimana. Un film da non perdere.